TESTIMONIANZE
DAI VOCE
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La tua storia ha un valore che non si può misurare. Raccontacela per dare coraggio e speranza a chi pensa di essere solo nella sua battaglia. Insieme siamo più forti.

LA STORIA DI GABRIELE

Mi chiamo Gabriele, sono nato il 5/9/1982. Della mia vita prima della malattia ho poco da raccontare, visto che avevo meno di dodici anni. Ma andiamo con ordine. Sono vissuto insieme alla mia famiglia in un paese ai confini tra Lazio e Abruzzo, Arsoli. Ero un adolescente normale e pieno di energie, andavo in bici, nuotavo, facevo scalate in montagna, aiutavo mio nonno in campagna. Quando ho cominciato a sentirmi stanco, non aver voglia di uscire, dormire molto, è stato normale allarmarsi, non ero mai stato pigro ma, soprattutto, non avevo mai avuto malattie. Tornavo da scuola e mi buttavo sul Ietto, ero apatico, poi ho iniziato ad avere emorragie dal naso. I miei capirono che qualcosa non andava e iniziarono le indagini, senza che io me ne accorgessi. Una domenica, mentre ero in campagna per una festa e all’improvviso vidi arrivare mia madre che mi disse di venir via perché dovevamo andare a Roma. Una sua amica le aveva fissato un appuntamento al reparto di Ematologia del Policlinico Umberto I, a via Benevento, con la Dott.ssa Testi, della quale aveva una gran fiducia. Avevo già fatto precedentemente delle analisi per un problema estraneo a tutto questo; siccome avevo tolto una cisti al braccio era risultato che avevo globuli bianchi molto alti ed emoglobina bassa ma nessuno gli aveva dato un particolare peso. A via Benevento ripetei gli esami del sangue uniti al puntato midollare.

Arrivò quindi la prima diagnosi: Leucemia Mieloide Acuta. Ricordo che la dottoressa, quando ebbe il referto, mi fece uscire dalla stanza e parlò solo con i miei. Io, ovviamente, volli sapere e, al ritorno in macchina, li tempestai di domande finché mi dissero che avevo una malattia nel sangue ma che, con le cure, tutto si sarebbe risolto. I miei sono persone taciturne per carattere, ma quel periodo si chiusero ancora di più, non parlavano mai, erano cupi e preoccupati. Del resto, era la prima esperienza del genere in famiglia; nessuno aveva mai avuto niente di simile, né tumori di alcun genere. Tornato a casa ho ripreso una vita normale: andavo a scuola e continuavo i controlli del sangue. Dopo un paio di mesi la situazione precipitò: mi salì molto la febbre e fui portato al Pronto Soccorso di Via Benevento dove iniziarono le terapie antibiotiche. Entravo e uscivo daII’ospedale; fui ricoverato in Pediatria perché, allergico a un antibiotico, la febbre saliva invece di scendere e arrivai a toccare i 43 gradi facendo letteralmente scoppiare il termometro!

Iniziai anche le cure chemioterapiche, con relativa perdita di capelli e finalmente dopo più di un mese i medici riuscirono a trovare un medicinale compatibile e la febbre iniziò a scendere. Durante il ricovero venne a trovarmi uno psicologo che, di routine, faceva assistenza ai malati. Io però non volevo parlare con lui, a queII’epoca pensavo che fosse il medico dei matti e, siccome non mi ritenevo tale, facevo finta di dormire quando entrava in stanza. Passava anche un sacerdote la domenica, con lui riuscivo a chiacchierare un po’ e un certo aiuto sono riuscito a riceverlo.

Nel reparto di Ematologia c’era anche una scuola, ma perlopiù gli insegnanti ci venivano a trovare in camera e ci facevano lezione a letto. Quando poi sono uscito dal reparto e andavo a fare le cure in Day Hospital negli intervalli tra una terapia e l’altra, andavo in classe per non dover perdere l’anno. Non sono riuscito a frequentare a scuola la seconda media, l’ho fatta praticamente dentro l’ospedale, ma poi in terza sono stato promosso e non ho perso niente.

C’erano poi i volontari di AIL Roma, che ci facevano giocare e studiare. Tra di loro c’era un insegnante di Storia deII’Arte che aveva riunito un gruppetto di ragazzi ricoverati e con lui abbiamo scritto dei testi di canzone, poi l’abbiamo musicate e cantate. È stato divertente. Conservo le videocassette ma non mi rivedo volentieri perché in quel periodo ero gonfio a causa del cortisone e senza capelli. Dimesso dall’ospedale sono stato a casa alcuni mesi. Intanto, completate le ricerche, si era reso necessario il trapianto del midollo osseo per poter guarire. Ero in lista d’attesa ma i miei familiari si sono resi tutti disponibili per la donazione e, nella sfortuna della malattia, ho avuto una fortuna incredibile: mio fratello Nicolò era compatibile al cento per cento, una possibilità molto rara in questa proporzione. Ci hanno descritto come due “case”, completamente identiche, sia all’esterno che all’interno, due gocce d’acqua! Passai quindi   settembre   nel reparto dei   trapianti   per la preparazione all’ intervento che avvenne il 12 ottobre. Ricordo benissimo quel giorno! Mio fratello era piccolino, aveva solo sette anni e si era sottoposto con coraggio al puntato midollare, sotto anestesia, quando hanno dovuto fare i prelievi da varie parti del corpo: Io riportarono in stanza con me che ancora dormiva, pieno di cerotti.

Fu eseguito il trapianto, che mi ha ricordato un po’ una trasfusione sanguigna. Nicolò restò una notte in osservazione e poi riprese la sua vita normale. Io, invece, rimasi in una specie di isolamento per un mese: durante la preparazione al trapianto, infatti, avevo dovuto fare una cura che azzerava le difese immunitarie e quindi non potevo rischiare neanche un raffreddore.

Potevo ricevere la visita di un solo genitore, una volta al giorno, che doveva sterilizzarsi e cambiare d’abito per entrare. Poi medici, infermieri e portantini per le terapie, rapide pulizie alla stanza e il personale che mi portava da mangiare. Pochi minuti ognuno. È stato un periodo molto duro, anche se sapevo che oramai il peggio era passato e che tutto sommato dall’inizio dei sintomi all’intervento erano trascorsi solo sei mesi.

Per un anno ho dovuto fare controlli ravvicinati, per verificare che non avvenisse un rigetto, in seguito si sono diradati sempre di più, finché dopo cinque anni sono stato dichiarato guarito. Ricordo che ogni volta che andavo in Ospedale per i prelievi andavo a salutare tutti uno per uno, medici, infermieri, volontari. Avevo stretto un legame forte con ognuno di Ioro, ci chiamavamo tutti per nome. In particolare, mi ero molto affezionato ad un medico che aveva fatto parte deII’equipe del trapianto, il Dott. Andrea Mengarelli. Forse perché all’epoca era molto giovane, o forse solo per simpatia, me Io sentivo molto vicino, mi veniva a trovare spesso, quando poteva ci facevamo una partita a carte.

Tornato ad Arsoli abbiamo fatto una grande cena al paese, con le pizze fatte in casa, e dove sono venuti in massa, volontari, medici, infermieri, tutti quelli che mi erano stati vicino in quel periodo. È rimasto un bellissimo ricordo, c’era un clima allegro e caloroso, si avvertiva l’intimità anche se eravamo più di trenta.

Poi, piano piano mi sono un po’ buttato tutto dietro le spalle, ogni tanto rivedo qualcuno di quei tempi ma non ci penso quasi più. Ero un ragazzino coraggioso, con una grande forza, riuscivo perfino a fare coraggio io ai miei, ero consapevole e informato di quello che avevo ma lottavo per farcela, ero ottimista, sapevo che ne sarei uscito! Una volta il Prof. Mandelli, che girava sempre per le corsie con un modo di fare abbastanza burbero e professionale, si fermò vicino al mio Ietto e disse: “Sei un ragazzo che mi piace, perché ridi sempre, sei allegro. Questo è il modo giusto per vivere la malattia, perché se ti butti giù la malattia prende il sopravvento!” Quella frase mi ha segnato e me la porto dentro sempre, accompagna ogni lotta della mia vita, oramai è stampata nella mia testa.

Se c’è da lottare lo faccio con tutte le mie forze. Questa malattia mi ha formato, sono cresciuto all’improvviso, almeno di dieci anni… Quando sono tornato a casa sentivo i miei amici “piccoli”, loro pensavano a giocare e a divertirsi, io invece già programmavo il futuro, aiutavo mio nonno imprenditore, volevo sbrigarmi a iniziare una vita da grande. Uscito daII’ospedaIe, sono dovuto stare cento giorni a casa di nuovo in isolamento, avevo pochi globuli bianchi ed ero a rischio di infezioni. Vedevo solo i miei genitori e pochi amici, ma sempre sterilizzati, con la mascherina. Poi, finito quel periodo, sono tornato ad una vita del tutto normale, scuola, sport, amici. Ho finito le medie, il liceo scientifico, mi sono iscritto all’università ma ho iniziato subito a lavorare, mi sentivo più adulto che studente, avevo fretta.

Sono arrivato fino a un esame dalla tesi ma non mi sono mai laureato! Avevo frequentato la facoltà di disegno industriale, avrei potuto lavorare con gli architetti ma ho lasciato tutto nel cassetto e oggi non ci penso più. Mi è rimasto il rimorso del denaro che i miei hanno speso per la mia formazione, ma preferisco il lavoro che faccio oggi a quello che fanno oggi gli ex colleghi di università. Ho una compagna e viviamo a Capena, un paesino del Lazio, speriamo di avere dei figli in futuro, ma senza particolare stress. Avrei voluto diventare donatore di midollo ma non posso farlo, neanche il sangue posso dare. Ho cercato altre forme di volontariato perché ritengo che sia un dovere civico, faccio parte della UST-Unità di Soccorso Tecnico, della Protezione Civile e quando posso aiuto AIL Roma.

AI tempo del mio ricovero avevo stretto un rapporto molto importante con una volontaria che allora aveva una sessantina d’anni ma oggi non c’è più. Si chiamava Paola Gentilucci e mi invitò quando ero ancora adolescente a vendere le Stelle di Natale a Piazza di Spagna. Sono stato con Iei tanti anni, finché a un certo punto mi ha lasciato responsabile di quella postazione, Iei era anziana e voleva ritirarsi. Mio fratello invece è rimasto donatore di midollo e con lui i miei genitori, se ci sarà bisogno non si tireranno indietro, i loro dati sono schedati nella banca dei donatori.

Non so esattamente se al tempo del mio trapianto Nicolò sia stato costretto dai miei genitori o abbia scelto liberamente di sottoporsi all’intervento. Credo però che, anche se da ragazzi litigavamo molto, lui l’abbia fatto spontaneamente quando gli è stata raccontata la gravità della situazione, è molto coraggioso, non si nasconde mai. Oggi, anche se non ci frequentiamo assiduamente, sappiamo di essere la prima priorità l’uno per l’altro, accorreremmo ovunque se ce ne fosse bisogno.

Abbiamo continuato a discutere nei primi anni successivi alla malattia e Nicolò allora mi guardava minaccioso e mi diceva: “guarda che mi riprendo il midollo eh!”

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