TESTIMONIANZE
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LA STORIA DELLA DOTTORESSA IORI

Sono la Dottoressa Anna Paola Iori, Dirigente Medico di I livello, in servizio presso il Reparto e l’ambulatorio Allotrapianti della Divisione di Ematologia del Policlinico Umberto I, in qualità di Responsabile Clinico.

Ho iniziato la mia attività da studentessa all’Ematologia del Policlinico Umberto I nel febbraio dell’86, ricordo ancora che a Roma nevicava.

Già da allora, durante il periodo della mia specializzazione, ho potuto usufruire grazie ad AIL Roma di borse di studio che hanno supportato la mia attività, fino a che non è arrivata poi, dopo parecchi anni, una strutturazione definitiva con il Sistema Sanitario Nazionale.

Partendo dall’inizio della mia storia e del mio percorso professionale, la mia prima e principale occupazione è stata quella relativa al trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche, target di cura ottimale per pazienti con malattie del sangue, dalle leucemie ai linfomi. Uno dei momenti cruciali e decisivi di questa attività è la ricerca del donatore: il donatore si ricerca all’interno della famiglia attraverso l’HLA – il sistema antigenico dei leucociti umani, parte fondamentale del sistema immunitario – e, quando un donatore familiare non c’è, si passa alla ricerca attraverso i registri internazionali di donatori volontari di cellule staminali. Tutto questo implica corrispondenze email e attraverso network con tutto il mondo, per arrivare ad individuare un donatore che per caratteristiche sia di HLA, che di sesso, di età e di peso sia il più adeguato per il paziente. Inoltre, è possibile cercare i donatori nella famiglia con una compatibilità al 50% quando, ad esempio, l’urgenza trapiantologica è tale che non ci dà il tempo di cercare un donatore da registro. Ultimo, ma non ultimo, è il processo di ricerca dei cordoni ombelicali cellularmente adeguati.

Questo processo rappresenta un fondamentale lavoro di regia che, molto spesso, non emerge, nonostante sia la parte più lunga e impegnativa del nostro lavoro.

Inizia poi la fase successiva, ovvero la scelta del condizionamento per il paziente, cioè la somministrazione di chemioterapia e/o radioterapia per prepararlo all’infusione delle cellule staminali. A seguito del trattamento, possono spesso insorgere complicanze legate alla profonda citopenia, ovvero la riduzione del numero di un determinato gruppo di cellule del sangue. In questo periodo il paziente ha bisogno di avere un’alimentazione per via endovenosa, spesso necessita di morfina per il dolore alla bocca dovuto alla mucosite, ha spesso febbre, ha bisogno di supporto trasfusionale: una fragilità umana, fisica ed emotiva che rende il ruolo del medico o dell’infermiere davvero importantissimo e cruciale.

Una volta dimesso, il paziente viene seguito in ambulatorio con frequenza inizialmente molto alta, due/tre volte a settimana o anche quotidianamente in day hospital. È questo il momento in cui si crea con il paziente una simbiosi: una vera e propria una squadra che collabora, perché il trapianto non è una terapia, è un percorso terapeutico fatto di tanti piccoli traguardi. Quando il paziente si allontana via via dal trapianto, il regime ambulatoriale diventa meno pesante, i controlli diventano più dilazionati nel tempo: è un’immensa gioia quando, dopo cinque anni, possiamo dire al paziente che non abbiamo più bisogno di monitorare la sua malattia con lunghi e faticosi esami, come il controllo del midollo osseo aspirato midollare, ma solo con esami di screening per la prevenzione delle complicanze a distanza, che possono eventualmente esserci dopo un trapianto allogenico.

Nel corso del mio operato, dall’86 ad oggi, ci sono stati tanti cambiamenti. Ma quello che è nettamente cambiato non è il lavoro in sé, bensì quello che offriamo al paziente.

Ad esempio, uno dei risultati più tangibili riguarda proprio la sofferenza: il paziente soffre meno perché, grazie alla ricerca scientifica, si hanno a disposizione strumenti che facilitano il suo percorso: dalle terapie antibiotiche di ultima generazione, fino a tipologie di chemioterapici che nell’86 non c’erano. Inoltre, è stata scoperta una nuovissima molecola che evita le di attivazioni del Citomegalovirus, virus che, purtroppo, molti pazienti contraevano nei primi tre mesi dopo il trapianto, comportando continui ricoveri.

Un altro radicale passo in avanti è la migliore gestione della reazione del trapianto contro l’ospite – detta tecnicamente GRAFT – non solo grazie a nuovi farmaci, ma anche perché è stato sempre più affinato il livello di tipizzazione di HLA, che incrementa la percentuale di compatibilità tra donatore e ricevente, riducendo nettamente le complicanze del trapianto. E poi anche la stessa qualità delle trasfusioni, i controlli sulle trasfusioni, la sicurezza delle trasfusioni.

Senza dubbio, dunque, grazie ai passi avanti fatti dalla ricerca, la sofferenza del paziente si è notevolmente ridotta, è aumentata la probabilità di trovare un donatore compatibile ed è quindi aumentata la possibilità di offrirgli una procedura trapiantologica adeguata ed efficace.

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